sabato 12 agosto 2017

Io #viajosola.

Era il 2005 quando, liceale, seduta tra i banchi di scuola, mi accingevo a svolgere una delle prove del fatidico esame di Stato. La materia era l'italiano e, tra le alternative, scelsi il saggio breve.
Titolo: il viaggio come percorso interiore.
Ricordo ancora la serenità con cui scrissi quel saggio, tutto d'un fiato, tra citazioni di filosofi, storici e letterati.
"ll vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi." (Marcel Proust)  

Oggi, più che mai, il viaggio è un bisogno da riscoprire.
Abituati a navigare soltanto sullo smartphone, voyeuristi delle vite altrui, abbiamo dimenticato il vero significato del termine "connessione".
Vivendo in una societá in cui tutto deve essere veloce, smart e easy, relazioni comprese, diventa fondamentale, per i più coraggiosi, staccare letteralmente la spina, godersi il silenzio e il passare del tempo, per perdersi e lentamente ritrovarsi.
Ed è per questo motivo che ho deciso di intraprendere il mio primo viaggio da sola, seppur in terra natia.

A chi avesse lo spirito e la voglia di partire in solitaria, consiglio il sito Viaggio da sola perché, del quale ho avuto il piacere di conoscere ed intervistare la co-founder Dana Donato, che si presenta cosi':

 
Mi chiamo Dana Donato, ho 31 anni e da qualche anno a questa parte ho messo via le mie paure e ho cominciato a viaggiare da sola. Ho sempre amato molto viaggiare ma fino a 3 anni fa per me non era altro che il sinonimo di "andare in vacanza". In certi casi lo è ancora, ma in altri vuol dire anche spostare la propria quotidianità da un luogo all'altro, magari lavorando e vivendo per un certo periodo totalmente immersa in un nuovo contesto e in una nuova cultura. In questo momento mi trovo in Canada, dove sono venuta con un visto lavorativo di 6 mesi. Adesso mi trovo a Toronto e, dopo un inizio burrascoso fatto di imprevisti e incomprensioni ho fatto amicizia con la città. 

1) Cosa ti ha spinto ad aprire il gruppo su Facebook "Viaggio da sola perché"?

La “scintilla” è nata durante l’estate del 2015 dopo una profonda riflessione sui motivi che mi avevano spinto a fare il mio primo viaggio da sola, dal quale ero tornata da qualche mese. In quel periodo leggevo molti blog di viaggiatrici e viaggiatori in solitaria e mi rendevo sempre più conto di non essere sola ad avere questa passione.
Dì li a poco mi sono resa conto che sì, c’erano molte donne che raccontavano i loro viaggi ma non c’era un luogo in cui tutte, anche coloro che non avevano un blog, potessero raccontarsi, confrontarsi e scambiarsi opinioni e consigli.
Da lì è nato tutto il progetto, che è stato co-fondato. Il primo step è stato il gruppo su Facebook, successivamente sono nati il sito e il blog.

2) Qual è stata l'esperienza più bella e più brutta vissuta durante i tuoi viaggi?

Fortunatamente non ho mai avuto brutte esperienze, piuttosto momenti difficili, come quando in Portogallo ho avuto problemi di salute e non ho potuto fare altro che anticipare il ritorno in Italia; oppure durante la prima settimana in Canada, ricca di imprevisti, dal bus per l’aeroporto che si rompe a metà tragitto allo staff dell’ostello che non voleva darmi la camera perché non riuscivo a prelevare contanti con la mia carta. Non le definirei brutte esperienze, solo piccoli incidenti di percorso che, quando sei lontana da casa e senza appoggi, possono sembrare insuperabili.
Il momento più bello finora è stato quando, dopo una pedalata di 16 Km tra colline e villaggi, sono arrivata a Odeixeice, un piccolo borgo di pescatori in Algarve, e li' ho visto l’oceano d’inverno.

3) Cosa pensi del movimento #ViajoSola?

Ricordo che è nato dopo che Marina Menegazzo e Maria José Coni, due ragazze argentine, sono state assassinate in Ecuador a inizio 2016. Ricordo la toccante lettera "Ayer me mataron”  scritta da Guadalope Acosta, in prima persona, come se fossero state le due ragazze assassinate a scriverla.
Il movimento #viajosola è nato per rivendicare il diritto delle donne a viaggiare senza dover essere costantemente additate come “quelle che se la vanno a cercare” se malauguratamente succede qualcosa. È nato anche per affermare con forza che in questi casi non è la vittima ad avere colpa di ciò che le è accaduto ma, piuttosto, della persona che coscientemente ha voluto farle del male. Viaggiare da sole è un diritto oltre che un piacere.
"Viaggio da sola perché" si batte anche per cambiare l’opinione di chi pensa ancora che la donna, per conoscere il mondo, abbia bisogno dell’assistenza maschile o genitoriale.

4) Cosa pensi dei messaggi prudenziali mandati dai tg e dai salotti tv successivamente ai fatti di cronaca che hanno coinvolto donne che viaggiano da sole?

Stiamo ancora subendo l’opinione di chi vede le donne come esseri indifesi, deboli e vulnerabili. Talvolta questi messaggi prudenziali virano molto verso questo retaggio culturale. Come per dire che, se succede qualcosa, è colpa nostra che non siamo state abbastanza attente.
Personalmente penso che quando si viaggia si debba per prima cosa tutelare se stesse, quindi informarsi bene sul luogo che si sta visitando, sulla cultura e la tradizione locale, sulle usanze, sulle leggi in vigore e sulle zone da evitare perché considerate pericolose o poco accessibili.
Dopodiché il viaggio andrebbe vissuto senza condizionamenti, con passione e felicità, senza privarsi di conoscere nuovi luoghi e nuove persone.

5) Cosa consiglieresti a chi si trova ad affrontare il primo viaggio da sola?

Dipende soprattutto dal tipo di viaggio che si sta per affrontare. Per chi è proprio alla prima esperienza consiglierei di scegliere una meta familiare oppure una città europea facile da raggiungere. Consiglierei di informarsi bene prima di partire e di organizzarsi almeno per i primi giorni.
Ripeto però, dall’esperienza con il gruppo Facebook ho capito che non c’è una prima volta uguale per tutte, ognuna di noi è diversa, c’è chi come primo viaggio da sola sceglie l’Asia o il Sud America, chi invece resta in Italia.
Nessuna di queste esperienze ha più valore o è meno significativa di un’altra, sono tutte esperienze che valgono la pena di essere vissute!

martedì 27 ottobre 2015

WOMAN di Patrizia Pepe piace solo allo IAP. #ImnotPatrizia

Riporto e sottoscrivo con piacere la lettera inviata ieri allo IAP (Istituto Autodisciplina Pubblicitaria) da una collega, Annamaria Arlotta, che attivamente e costantemente si batte per il blocco degli spot sessisti, soprattutto tramite la pagina Facebook "La pubblicità sessista offende tutti".
La lettera nasce in reazione alla alquanto insoddisfacente risposta dello IAP relativamente alla nuova pubblicità di Patrizia Pepe.

Spett. Iap,
avete replicato ad alcune nostre segnalazioni del video sessista di Patrizia Pepe “Woman” affermando che per voi è accettabile e non da censurare.


Ci domandiamo se forse, mentre lo guardavate, non avete fatto caso alla sequela di messaggi in stile Anni ’50 che contiene. Avete letto i sottotitoli, che dicono:
Posso lucidare questa casa/e farla splendere come una monetina/ nutrire un figlio/ oliare l’auto/ e incipriarmi il naso/allo stesso tempo. 
Vestirmi a punto/ fare le 4 del mattino/e poi addormentarmi alle 5/alzarmi alle 6/ e ricominciare da capo. Perché sono una donna/ ricordatelo. 
Se sei malato/ti farò stare bene/ se ti senti maledetto/spezzerò l’incantesimo
Se sei affamato/ti prenderò per la gola/ Se è l’amore che cerchi/ ti bacerò/ fino a farti tremare.
Dunque: pulire, farsi bella, essere stoica, curare, rassicurare, nutrire, offrire sesso ma SOLO se è l’amore che lui cerca. E se un giorno questa donna avesse, che so, l’influenza, andrebbe bene che l’uomo si arrabbiasse con lei per non essere al suo completo servizio come gli altri giorni? Brrr. 
Tornando al contenuto del video, per la Pepe essere in quel modo significa essere una vera donna: mestieri di casa, cura dell’uomo e una certa dose di autolesionismo. Wow, che messaggio in perfetta sintonia con la Convenzione di Istanbul contro gli stereotipi alla quale lo Iap ha aderito!
L’operazione della Pepe, che si avvale di inquadrature moderne, musica accattivante, cucine tecnologiche di altissimo costo, ragazze magre, ben vestite e dinamiche, è la peggiore manipolazione che abbiamo mai visto. Un’operazione subdola che serve a nascondere il messaggio sessista che serve loro a spingere le donne ad acquistare i loro prodotti.
Lo Iap non si è accorto di questo? 
Avete pubblicato un intero Quaderno dedicato al trattamento della figura femminile in pubblicità, ma al momento sembra che per sessismo voi intendiate più che altro la volgarità, come mostrate anche nei manifesti che illustrano al pubblico il vostro operato.
La volgarità è solo l’aspetto più facile da decifrare del sessismo.
 
Dopo decenni in cui vi occupate del fenomeno ci sembra che avreste dovuto già andare oltre l’ovvio e comprendere, ad esempio, che nel caso del video “Woman” ci troviamo di fronte a un imbroglio molto ben congegnato. 
Probabilmente vi ricordate le vecchie réclame della Pepe, con lo slogan “Who is Patrizia?”


Patrizia quindi è un manichino anonimo col volto coperto da oggetti ridicoli. La donna è umiliata. Con questa vi chiediamo di riaprire il caso Patrizia Pepe alla luce di quanto abbiamo scritto.  
Terminiamo preannunciando che poiché il Vs. Istituto è l’unico con la facoltà di monitorare e censurare le pubblicità sessiste, cosa che dite di impegnarvi a fare, ma che noi non consideriamo messa in pratica con sufficiente frequenza, è nostra intenzione scrivervi spesso per sollecitare un vostro urgente cambio di passo. 
Avete risposto a un’iscritta che protestava per telefono che eravate stanchi di lamentele. Non si tratta di lamentele ma di proteste che richiedono una risposta ben precisa.
In attesa di una Vs. risposta inviamo distinti saluti.



martedì 28 ottobre 2014

Il femminicidio per gli italiani: tutta colpa di razza e cultura straniere.

E' domenica sera quando si registra l'ennesima violenza nei confronti di una donna. Questa volta si parla della mia città, Catania, e di una ragazza prossima alla mia età, Veronica, 30 anni, uccisa dall'ex fidanzato nella sua macchina.
Dire che fatti del genere generano orrore, rabbia e paura, è una cosa scontata. Sarei l'ennesima persona a gridare contro l'ennesimo femminicidio, contro la mancanza delle istituzioni, di leggi adeguate, di mancati finanziamenti verso centri preposti a che questo non accada.
Quello di cui voglio parlare, infatti, non è tanto il fatto (purtroppo) compiuto, quanto le origini dello stesso.

Perché dire che Veronica è stata uccisa da un senegalese non aiuta.
Perché dire che tante ragazze sbagliano scegliendo di stare con ragazzi di colore non aiuta.
Perché dire che questa violenza ce la siamo cercata, non ascoltando lo #stopimmigrazione, l'emergenza ebola, e non rimandando i barconi indietro, non aiuta.
Perché dire che "moglie e buoi dei paesi tuoi" è meglio, non aiuta.























Tutto questo non aiuta perché sposta l'attenzione al problema.
Il problema per cui una donna ha la probabilità di morire non solo per tumori, incidenti, malattie, ma anche per mano del proprio partner o ex. E ciò a prescindere da pelle, razza o cultura.
E' degno di rilievo il progetto della Casa delle donne di Bologna, stopfemminicidio.it: "Impara a conoscere il fenomeno per poterlo combattere".
Forse dobbiamo ricordarci che i casi di femminicidio sono 1036.
Che su 1036 casi, 774 hanno avuto come autore un uomo di nazionalità italiana.
E che, quindi, il 75% delle donne uccise ha avuto un assassino italiano.
Ma questa è una notizia che ormai ci aspettiamo e che, per tal motivo, ci lascia indifferenti, mentre ascoltiamo il tg a tavola, di fronte ad un bel piatto di pasta.


Vi siete mai chiesti, voi italiani di qualunque genere, cosa fate personalmente, nel vostro quotidiano, perché questo non accada?
Vi siete mai chiesti cosa pensate delle donne?
Troppo emancipate economicamente? Troppo emancipate sessualmente?

Perché usare Facebook per fare i social-moralisti, postando frasi strappalacrime in bacheca, è alquanto inutile se poi vi fate due risate con stereotipi del genere:



Come è alquanto inutile, oltre che patetico, cavalcare l'onda della popolarità di un fatto, creando un proprio video su Facebook dove ci si sistema la chioma e si implora di essere condivisi.
"Per Veronica, perché nel 2014 non possono esistere queste cose". Ma solo nel 2014.




E' vero, in fondo, è soltanto tutta colpa di un negro.




venerdì 24 ottobre 2014

I giovani d'oggi e il precariato emotivo: è davvero tutta colpa della crisi?

Se il futuro dei giovani d'oggi è incerto, una cosa può esser detta: i giovani non amano più.
Almeno, non liberamente.

La questione non si riduce alla ragione, seppur valida, per cui a maggiore condivisione telematica sta corrispondendo una minore compassione umana. Se è vero che la facilità di acquisire maggiori informazioni sugli altri ci ha reso diametralmente più indifferenti agli stessi, è vero anche che si è persa l'empatia nei confronti delle persone che ti trovi accanto da tempo, e non solo verso quelle dall'altra parte dello schermo.


E' tutta colpa, allora, del modus comunicandi della nostra era? Io non credo.
Più del pettegolezzo di Facebook, del cinguettio di Twitter, dell'egocentrismo di Instagram, una cosa sta profondamente cambiando i giovani nei loro rapporti sociali: la disoccupazione.
Ci hanno insegnato che il lavoro nobilita l'uomo e che compiere il lavoro che si ama è la migliore approssimazione di felicità sulla terra.
Ma cosa succede quando manca? Può il lavoro definire tutto ciò chi siamo?

Una recente indagine del sito "It's just a lunch", riportata dall'Huffington Post, mostra che se il 75% delle donne intervistate probabilmente non uscirebbe con un uomo che non lavora, la maggior parte degli uomini avrebbe difficoltà ad intraprendere una relazione seria in mancanza di una propria stabilità economica.
La donna vorrebbe accanto un uomo che sappia mantenerla e dimostrare impegno verso qualcosa, l'uomo non potrebbe mostrarsi vulnerabile di fronte ad una situazione di bisogno.
Lo spot dell'ultimo profumo col famoso attore di turno ci dice "Rimani concentrato. Sii uomo. Un uomo di successo. L'uomo di oggi."
Non costituisce tutto ciò un grande stereotipo? Si. Ma è reale.


E' antica quanto i dinosauri la creanza per cui un uomo non è abbastanza virile o forte se non ha un lavoro, se non lo ha di successo o se non è capace di prendersi cura economicamente della famiglia.
Quanto questo può influire, in termini di ansie, paure e responsabilità per un uomo disoccupato o precario?
Non è una esagerazione parlare di precariato emotivo. Alcuni psicoanalisti la chiamano addirittura anoressia sentimentale.
Il tempo di crisi diventa una ragione accettabile di egoismo ed individualismo, per cui se non si è "felici" lavoratori, non si può essere impegnati sentimentalmente. Insomma, l'uno esclude l'altro.  
Ecco che essere single diventa una comodità, una condizione di convenienza contro le troppe aspettative del compagno/a. Come se un lavoro non sia fatto delle stesse capacità di team building, di flessibilità costruttiva, di dialogo ed ascolto, che dovrebbero esistere all'interno di una coppia.
Come se spostarsi da un Paese all'altro porti a cambiamenti drastici di valori e sentimenti. Solitamente ciò che cambia è solo la gabbia, respirando lo stesso conformismo sotto lo stesso cielo.
Insomma, mantenere una relazione a lungo termine, potrebbe rivelarsi un impegno troppo grande, a dispetto degli ipotetici trasferimenti, traslochi, stage non retribuiti, programmi Erasmus Plus, scambi internazionali.
Insomma giovani, è davvero tutta colpa della crisi?


Ne parla bene Alessia Bottone, con una laurea, un blog, tanti stage sulle spalle, nel suo libro "Amore ai tempi dello stage. Manuale di sopravvivenza per coppie di precari", che spiega come la figura pericolosa dell'amante sia stata sostituita da quella della "Crisi".
"E' la crisi il terzo nella coppia, l'elemento che decide se è il caso o meno di continuare la storia." 

 Anche il palermitano Walter Giannò, nel suo libro "Amore precario", evidenzia in maniera tragicomica le spaventose dinamiche del precariato in cui si imbattono  i giovani d’oggi, nell’impossibilità di coltivare serenamente un futuro in una società arrugginita, malata.


Forse il detto "due cuori e una capanna" è eccessivo, ma è diventato così patetico/utopico credere nell'esistenza di persone che, nonostante le difficoltà, riescano a sorriderti gridando "Buongiorno principessa"?
Perchè se la vita è precaria non è detto che debbano esserlo anche le relazioni.


venerdì 25 luglio 2014

Prova costume e "size discrimination"? Stay calm and put a #fatkini on your body.

Il fenomeno della "prova costume" attanaglia gran parte della popolazione femminile alle prime luci di giugno. Ecco che le pubblicità di yogurt, cereali, bevande, non fanno altro che ricordarti l'arrivo dell'estate, insieme ai corpi stupendi delle modelle delle aziende di costumi. La domanda che incombe è: come avere un corpo da bikini?



Beh, semplicemente indossandolo.



Ecco la risposta tutta americana che, da piccola eco della scorsa estate, si è trasformata quest'anno in una vera moda, un'attitude che porta con sè un sigillo, il fatkini.




  
Il fatkini è un costume a due pezzi che celebra le taglie curvy, divenuto famoso soprattutto quando Gabi Fresh, styleblogger, lo ha indossato incoraggiando le donne oversize a non vergognarsi delle proprie forme, e ne ha creato una collezione con il sito Swimsuits For All.


La fama dell'iniziativa ha fatto sì che molte ragazze riuscissero finalmente a mettersi in mostra col loro fisico senza subire l'imbarazzo delle reazioni esterne.






"Thick or thin I love myself."
"Oh, no worries. I'll just be over here, wearing stuff you think I shouldn't." 

Applausi.






Recente è il caso di Sam Newman, una ragazza sovrappeso che ha accusato Instagram di "size discrimination" per aver cancellato delle sue foto in abbigliamento intimo: “Le mie foto non si adattano alla loro idea di normalità”.
Che Instagram adotti una politica dubbia sulla fisicità e propenda a censurare foto del genere piuttosto che immagini legate ad autolesionismo o disturbi alimentari, ne avevo già parlato qui.



Ad ogni modo, è importante che le persone sovrappeso, almeno fuori dall'Italia, stiano riuscendo a liberarsi dalla paura della gente, dei loro pregiudizi estetici e di quella percezione culturale che decide cosa è bello da cosa non lo è.
Lo ha spiegato molto bene la blogger Jenny Trout, che sul suo blog e su HuffPost Women, ha pubblicato un articolo dal titolo: "I wore a bikini and nothing happened", inserendo una sua foto in costume.
  
"As a society, we need to be more honest in our discussions of other's bodies. If we can't avoid those totally unnecessary conversations, then we should at least admit the truth to ourselves: That this has nothing to do with health, and everything to do with the control we believe is our right to exert over others."





"Come società, abbiamo bisogno di essere più onesti nei nostri discorsi sui corpi degli altri. Se non possiamo evitare quelle conversazioni totalmente inutili, allora dovremmo almeno ammettere la verità a noi stessi: che questo non ha nulla a che fare con la salute, e tutto ha a che fare con il controllo che crediamo sia nostro diritto esercitare sugli altri."



 

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